La rabbia ha un enorme potere, spesso sottovalutato. Proprio in questi giorni lo sto sperimentando sulla mia pelle, principalmente per via della lite silente con F., anche se, ad essere sinceri, non è l'unica causa. (Mi ha persino fatto scrivere una poesia, cosa che non facevo da almeno cinque anni.) Un potere magico, forse? Direi piuttosto eclettico, poliedrico, versatile – che poi questi aggettivi mi fanno tuffare a delfino nel mondo greco, probabilmente per la loro etimologia.
A partire da venerdì, il giorno nero, appunto, non sono riuscita a staccare il pensiero da un concetto in particolare: la contraddizione. È affluito nei miei pensieri secondo una modalità e una frequenza imprevedibili: ieri non mi è mai venuto in mente, sabato a volte, oggi di continuo. Addirittura mentre mia sorella cuoceva la pasta e io apparecchiavo la tavola. Recitavo – in inglese – un dialogo di Mr. Nobody, film inedito in Italia che mi aveva consigliato il ragazzo di mia sorella. Il tema principale è la possibilità, la necessità in alcuni casi – di non scegliere: you have to make the right choice. As long as you don't choose, everything remains possible, racconta Nemo Nobody, protagonista del film. ("devi fare la scelta giusta. Finché non scegli, tutto rimane possibile"). Ma, inevitabilmente, non scegliere genera infinite contraddizioni: tutto potrebbe accadere, ma per la stessa ragione non potrebbe accadere nulla. E verso la fine del film il giornalista cui Nemo racconta le sue incredibili dirà:
GIORNALISTA: "Tutto quello che dice è contradditorio. Non può essere stato in un posto e in un altro contemporaneamente."
NEMO: "Intende dire che si devono fare delle scelte?"
GIORNALISTA: "Di tutte queste vite, qual è quella giusta?"
NEMO: "Ognuna di queste vite è quella giusta. Ogni percorso è il percorso giusto. Tutto potrebbe essere stato qualcos'altro e avrebbe lo stesso significato."
Contraddizione significa semplicemente affermare sia il vero che il falso. Forse significa anche non scegliere una verità. Se non scegli, tutto rimane possibile, ricordate? L'inglese racconta attraverso due parole molto simili il processo di scelta: una volta presa una decisione, il falso (false, fake) comincia a sbiadire (to fade), si assottiglia via via sempre più fino a scomparire del tutto. La nostra mente lavorerà con una nozione di vero, cancellando quella falsa. Si fiderà di noi, altrimenti in capo a pochi mesi il suo continuo dubitare ci spedirebbe al manicomio.
La mia lite con F. è contradditoria, a ben guardarla: non è venuta da me a cena per fare shopping con la sorella, ma non mi ha dato tecnicamente buca, perché mi ha avvertita il giorno prima. L'ha fatto perché la famiglia viene per lei prima di ogni altra cosa, ma ho l'impressione che ne sia dipendente, piuttosto che legata. E pensavo, tra venerdì e oggi, che il nostro scontro mi sta portando decisamente incontro ad una scelta che, come Nemo, non voglio compiere: prendere atto del fatto che per lei conto meno di quanto credessi e fare come se niente fosse, proseguire normalmente la nostra amicizia, insomma, oppure ridimensionare il rapporto, probabilmente tagliare i ponti. Quanta dignità mi rimane se resto con una persona che mi pospone sempre a qualcosa'altro? E, d'altro canto, ho davvero il diritto di rompere così, letteralmente da un giorno all'altro, un legame che dura da dieci anni?
In chess it's called Zugzwang, when the only viable move is not to move ("Negli scacchi si chiama Zugzwang, quando l'unica mossa possibile è quella di non muovere"). È una possibilità che si verifica quando ti rendi conto che, ognuna delle due mosse che puoi fare, porterà la tua pedina ad essere mangiata e te a perdere la partita. Ognuna delle due mosse ti ucciderà: quale scegliere, allora? E su che base? Come Nemo, anch'io sono giunta ad uno Zugzwang. Non so se posso davvero prendere una decisione, e questo posso ha i molteplici significati dell'inglese: sono in grado di farlo (perché lo desidero), sono semplicemente in grado di farlo, ho il diritto di farlo. Non lo so, e come per Nemo, "non muovere" mi distrugge comunque.
E tuttavia, questa rabbia, che ad osservarla al microscopio non è poi nemmeno rabbia, ma un concentrato di amarezza e disillusione, mi ha anche fatto scrivere una poesia. Non lo facevo dai tempi del liceo. Mi ero ormai convinta che la mia forma di scrittura fosse la prosa, e in particolare una prosa rivolta sempre ad analizzare, mescolandoli, i fatti che mi accadono e la mia interiorità, i miei valori. Trovarmi ieri sera a pensare delle parole che, per qualche motivo, non avrei mai potuto scrivere in prosa è stato sorprendente. Non strano, ma sorprendente sì.
Non sono sicura di ricordare l'ultima poesia che ho scritto; anzi, non me la ricordo e basta. Ad un certo punto credo di aver deciso di abbandonare la poesia come genere, e così ho fatto. La poesia è un genere bellissimo, dà la possibilità di esprimere davvero tutto quanto vogliamo dire e raccontare, ma è un'arma a doppio taglio: è altissimo il rischio di sconfinare nel sentimentalismo, nel vomito di anafore, ad esempio. Ma credo che la poesia possa anche essere profetica, come nel mio caso, oltre che terapeutica: alle volte mi sale alla mente un'accozzaglia di nomi, aggettivi e parole che lì per lì non ha nessun senso. Cionondimeno la scrivo, e qualche giorno dopo, a volte qualche settimana o mese dopo, ecco che quelle parole si avverano e acquistano un significato.
Spero siano profetiche anche quelle che ho scritto ieri sera; le posto qui a chiusura di questo post.
La felicità
è un attimo.
È un ballo lento
nell'abbraccio più tenero.
E ha il colore blu,
profuma
come la terra di montagna
a Ferragosto.